HOME
HOME



Il Tempo Fermo
Le funzioni destorificanti del simbolismo

di Marco Menicocci

L'invenzione dei sistemi mitico-rituali

Nelle usuali concezioni mito e rito formano, insieme, uniti come termini complementari, l'elemento costitutivo di una religione: il mito sarebbe ciò in cui si crede mentre il rito sarebbe ciò che occorre fare. Il primo giustificherebbe il secondo e questo, a sua volta, presupporrebbe una teoria, o "credenza", in grado di conferire valore alle esecuzioni. Perfino l'aspetto morale potrebbe essere ridotto a questi due elementi, come è sovente accaduto nell'interpretazione delle "religioni primitive". In questo senso il termine mito è usato per indicare tutti quei racconti e tradizioni, rinvenibili presso i più diversi popoli della terra, che sembrerebbero condividere un carattere di religiosità e sacralità mentre il termine rito verrebbe a indicare tutti quei comportamenti stereotipati rinvenibili soprattutto nell'ambito religioso. Queste due categorie indicherebbero, pertanto, aspetti effettivi del reale universalmente diffusi, fatti culturali - i miti e i riti, appunto - rinvenibili pressoché ovunque. Quello che è sottinteso da questa concezione è che miti e riti sarebbero caratteri costanti della cultura dei vari popoli, almeno di quelli non civilizzati. Su questa via è poi facile costruire un'opposizione fra le culture ove gli elementi mitici e rituali sarebbero sovrabbondanti e nelle quali prevarrebbe pertanto una mentalità mitica, e la nostra cultura moderna, caratterizzata dalla scienza e dalla tecnologia industriale, nella quale prevarrebbe una mentalità razionale. Salvo poi accorgersi che anche nell'Occidente razionale emergono contenuti mitici (nei sogni, nella rinascita dell'occultismo, in comportamenti politici irrazionali ...) oppure scoprire che taluni popoli primitivi sono sorprendentemente privi di comportamenti rituali. In ogni caso i termini mito e rito rispecchierebbero, in quasi tutti i popoli della terra, realtà culturali oggettive, elementi concreti ben distinti da altri ordini di elementi culturali. In altre parole esisterebbero narrazioni oggettivamente mitiche e comportamenti oggettivamente rituali.

Tuttavia le cose non stanno affatto in questo modo e pretendere che mito e rito costituiscano realtà culturali oggettive non solo è contraddittorio ma costituisce una proiezione arbitraria di elementi nostri nelle altre culture.
Iniziamo dalla pretesa che esistano alcune narrazioni e tradizioni che per il loro carattere intrinseco sarebbero miti, ben distinti da altri tipi di narrazioni e discorsi. Apparentemente a qualificare un mito basterebbe il suo carattere religioso, tuttavia esistono molti miti che per argomento e linguaggio sembrano avere assai poco di religioso, mentre si possono avere per converso discorsi esplicitamente religiosi, si pensi alla teologia, che pretendono di non avere nulla di mitico o addirittura di essere demitizzanti. E' chiaro dunque che non può essere il carattere di religiosità a distinguere il mito. Ci si può accordare, e questo vedremo rappresenta un passo decisivo, nel definire mitiche quelle narrazioni che, soprattutto nelle culture a noi lontane, fondano qualche cosa: in genere gli elementi più importanti del cosmo di una cultura. Questo consentirebbe di distinguere il discorso mitico (che fonda) da quello scientifico e da quello storico (che spiegano e non fondano) come pure dalle favole moraleggianti e dalle fiabe per bambini, salvo poi rintracciare eventualmente elementi mitici, magari "sopravvivenze", in ciascuno di questi discorsi. Anche in questo modo però non tutti i problemi sono risolti: pretendere infatti che il termine mito qualifichi un particolare tipo di narrazioni, sia pure quelle "che fondano" rispetto ad altre che "non fondano" , conduce da una parte a includere nella categoria narrazioni che, nei popoli che le raccontano, non vengono affatto distinte da altre narrazioni non mitiche, dall'altra a escludere narrazioni che certamente contengono numerosi tratti fantastici simili a quelle mitiche ma che non sembrano fondare alcunché. Possiamo considerare miti le tragedie greche? E le narrazioni di Erodoto e Tucidide? Non è possibile certo distinguere riga per riga gli elementi mitici da altri poetici e da altri storici: un simile procedimento, ammesso che sia possibile, opererebbe una serie di decontestualizzazioni e distruggerebbe l'unità del prodotto storico considerato, sia esso una tragedia o un trattato di un logografo. Non solo, ma la pretesa che alla categoria "mito" sia ascrivibile un particolare tipo di narrazioni distinte da altre di carattere storico, scientifico ed artistico, conduce ad una pignoleria classificatoria nella quale ogni criterio di scelta rimane altamente arbitrario e soggettivo. La lettura della Bibbia, ad esempio, fornirebbe il vero storico letterale per credente ingenuo, elementi mitici mescolati ad elementi storici per il credente istruito in teologia, solo miti per l'ateo convinto. In tutti e tre i casi la scelta se classificare un racconto come mitico o in un altro modo rimarrebbe legata a considerazioni arbitrarie e soggettive.

Per certi versi simile il discorso sul rito. Il termine coprirebbe tutti quei comportamenti in qualche modo obbligati: sono rito quei gesti che si devono compiere in un certo determinato modo e non in altri . In questo senso rito e comportamento stereotipato sarebbero pressoché sinonimi, al punto che il termine rito viene correntemente usato in etologia per descrivere alcuni comportamenti animali ripetitivi, e in psichiatria per descrivere alcune patologie nelle quali i pazienti tendono a ripetere coattivamente gesti e comportamenti. In senso degradato il termine è usato anche per riferirsi ad alcuni comportamenti, ad esempio il rito del thè, la cui ritualità è imposta solo dalle regole della buona educazione e non è sentita come obbligante in assoluto né deriva dal gesto in sé: si può bere thè anche se lo si è preparato fuori dagli schemi del bon ton. Questa definizione Apparentemente sensata trova un primo limite quando si prova a far rientrare nella categoria rito una serie di comportamento quali i riti giuridici e le azioni nei tribunali che, pur dovendo seguire una corretta procedura e definiti esplicitamente riti nei trattati di giurisprudenza, sembrano essere privi di una reale "ritualità", qualunque cosa questa sia. La sfera giuridica è per noi fuori da quella religiosa e si esita a far rientrare ciò che avviene nei nostri tribunali nella categoria rito. Del resto la corretta procedura da tenere in tribunale è frutto di una norma umana, i codici di procedura, che può essere senza difficoltà mutata da nuove disposizioni legislative. E' come se la ritualità nei tribunali derivata da una convenzione legislativa e non imposta da necessità assolute: un po' come avveniva nel caso del rito del thè, con l'aggravante che almeno quest'ultimo deriverebbe almeno da un reale rito religioso orientale. Difficilmente pertanto in un manuale di Storia delle religioni ci si aspetterebbe di veder portare, come esempio di rito, ciò che avviene nei nostri tribunali mentre non sorprenderebbe affatto vedere come esempio le regole di un giudizio in vigore in un popolo primitivo. Questo, è bene ripeterlo, nonostante quello giuridico sia esplicitamente, fin dall'epoca romana, definito rito e debba seguire una precisa, corretta, procedura per essere valido. Come dire che uno dei principali riti correntemente usati e conosciuti da tutti stenta ad essere considerato un vero rito: forse perché privo di quella valenza di religiosità che sembra necessaria per caratterizzare un vero rito. Valenza che però manca anche quando il termine è usato in etologia e in psichiatria. Qui anzi il termine perde anche ogni connotato culturale finendo per coprire la pura naturalità, comportamenti pre-culturali. Non è infatti corretto parlare - almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze - di "cultura" per i comportamenti animali. Quanto alle gravi patologie psichiatriche nelle quali i soggetti ripetono coattivamente gesti si tratta chiaramente di comportamenti non condizionati culturalmente, effetto di un limite della presenza attiva e cosciente, di una regressione rispetto alla culturalizzazione del sé e del mondo: una perdita della cultura in direzione della mera naturalità. La categoria rito, nella definizione usata di comportamento obbligato e reiterato, finisce allora per comprendere pseudo riti ed escludere invece un rito vero.

Anche in questo caso non si può superare il problema usando criteri più o meno restrittivi per includere o escludere forme di comportamento distinguendo riti veri da riti falsi. Occorrerà invece considerare un compito che tutti i riti debbono svolgere: quello di far passare, di trasformare la realtà. Il rito di inaugurazione di una strada è un falso rito perché la strada funziona anche se nessuno la inaugura mentre quello che avviene in tribunale ha il potere di far passare un cittadino dalla libertà alla prigione, di trasformare letteralmente la sua esistenza; analogamente un rito iniziatico trasforma un giovane in un adulto e il battesimo trasforma il bambino in un cristiano. Il rito agisce per mutare certi aspetti della realtà, così come il mito la fonda in altri aspetti.

Per sciogliere il nodo bisognerà rinunciare a considerare mito e rito come categorie oggettive e universali per intenderli come criteri interpretativi. Per farlo converrà ripercorrere la storia dei due termini: essi giungono a noi infatti ricchi di una lunga storia e conoscerla può aiutare a superare alcune posizioni oggettivistiche.

Mito greco e rito romano

In realtà mito e rito sono categorie culturali che provengono da culture diverse, il mito da quella greca e il rito da quella romana, e che solo con un certo arbitrio possono essere applicate a tutte le culture. Non possiamo considerare mito e rito come categorie universali, forme culturali eterne, presenti sempre e dappertutto. Quello che possiamo fare è invece considerarli come criteri interpretativi e tali cioè da consentire di distinguere una funzione mitica e una funzione rituale: funzioni che sono opposte, poiché quella mitica fonda l'immutabile, mentre quella rituale realizza il mutabile, e non giustapposte come complementari. Definirle come criteri interpretativi significa dire che la loro stessa opposizione non è assoluta ma metodologica, posta dallo storico al solo fine di ricostruire le realtà culturali. Vediamo come nascono questi termini. Il termine mito deriva dalla cultura greca (mythos) all'interno della quale, con il trascorrere del tempo assume vari significati, da discorso pubblico, racconto (già in Omero), diceria, narrazione delle storie degli dei e degli eroi, sino a divenire sinonimo di favola. A partire almeno dal VI secolo, l'opposto del mito (mythos) è il discorso logico (logos): il primo è inteso come poesia, allegoria o addirittura come discorso fantastico; il secondo è inteso come discorso vero, prosaico, razionale. Il dire logico, il discutere per giungere a una conclusione, è opposto al dire mitico, un vano raccontare, che ha al massimo un valore estetico. Il discutere logico, invece, è quel discutere che fonda l'azione storica, che è alla base di decisioni effettive, pratiche: si pensi ai cittadini che, nell'agorà di una polis, discutono su una linea politica. Il mito, invece, fonda l'attualità, quegli aspetti del reale dovuti ad azioni avvenute nel tempo mitico e sui quali non è più possibile intervenire, ma non certo l'azione storica.

Achille e Patroclo
Fig.: 1) Achille, ritrovato il corpo di Patrocolo, lo conduce al campo acheo per i giusti onori. Il ritrovo del corpo di Patrocolo e i funerali erorici che gli vengono tributati sono la fondazione mitica del corretto rapporto vivi-morti. Occorre rompere ogni collegamente tra le due sfere, della vita e della morte, e i riti funebri sono l’espressione rituale di questa frattura. (Illustrazione tratta dal c. d. "Vaso François", della prima metà del VI sec., riprodotta da: Furtwangler-Reichhold, "Griechische Vasemmalerei".

Il termine rito (ritus) deriva invece dalla cultura romana nella quale indica tutti quei corretti modi di agire mediante i quali è possibile muoversi nel reale per trasformarlo e donargli senso culturale. A Roma l'opposto del rito è irritus, parola che indica l'agire vano, fatto male, senza effetto. Il non rito è il pre-culturale, precosmico: ciò che è inerte, incapace. I termini la cui etimologia è invece riconducibile a quella di ritus indicano ciò che è corretto, ben fatto, ciò che cosmicizza, l'agire culturale. Un termine affine a ritus è il rta vedico che significa ordine: entrambi derivano dalla medesima radice indoeuropea. Così se in Grecia l'opposizione è tra due diversi modi di dire, mitico e logico, a Roma è tra due diversi modi di fare: un fare rituale, che conferisce ordine e valore, si oppone all'incapacità di fare, a un fare vano, inutile, senza effetti. Per tradurre il termine ritus in Grecia dovremmo ricorrere a due distinti termini: thysia, per il rito rivolto agli dei, e enagismos per il rito rivolto agli eroi. In realtà più che rito la traduzione corretta per questi termini sarebbe sacrificio, poiché effettivamente si trattava di due distinte forme di sacrificio, ovvero di offerte, rivolto a distinte categorie di esseri sovrumani. Il sacrificio comportava necessariamente un rapporto con esseri extraumani, dei ed eroi, mentre a Roma il ritus poteva essere svincolato da qualsiasi rapporto con le divinità. Se poi volessimo intendere il rito nel senso più ampio, rispetto a sacrificio, di culto rivolto alle potenze extraumane, allora dovremmo considerare almeno altri due distinti termini greci, orgia e mysterion, indicanti due distinte modalità di culto. Unificare a tutti i costi questi quattro termini greci (e in realtà si potrebbe aggiungere ancora qualche altro tipo di "rito greco") sotto la categoria di rito significa non solo privare la nozione originaria di rito di tutte le specifiche valenze romane ma anche tradire la cultura greca che, se ha usato quattro termini per indicare quattro cose diverse avrà certo avuto i suoi buoni motivi. Dire che i misteria e le thusie erano i riti greci non ci fa avanzare neanche di un passo nella comprensione della cultura greca all'interno della quale il problema non è sapere quali sono i riti ma distinguere, come distinguevano i greci, orgia da misterion e thusia da enagismos.

Il problema naturalmente non è quello di una traduzione più o meno accurata dei termini romani in quelli greci o viceversa, ma capire la realtà storica particolare della cultura romana da una parte e di quella greca dall'altra: ricostruire la logica interna dei due diversi sistemi culturali, verrebbe quasi da dire, se la parola logica non rischiasse di far pensare a qualcosa sottratto dalla storia. In questo senso l'uso della parola rito come categoria universale alla quale dovrebbero corrispondere realtà equivalenti è fuorviante. Simile il discorso per il mito: a Roma (e in verità neanche, per fare un esempio, nell'antica cultura ebraica, quella testimoniata dalla Bibbia) non esiste nessun termine per tradurre il greco mythos, ad eccezione del termine fabula che però copre solo una parziale e tardiva accezione della parola greca. Questo significa che i romani erano costretti a trattare i miti greci come pseudostorie, racconti fantastici, ma non come miti, non come racconti in grado di fondare l'attualità. Pretendere di parlare di miti romani significherebbe pertanto chiamare miti alcuni racconti, quelli romani, privi della principale caratteristica dei racconti mitici: quella di fondare la realtà. Una accezione chiaramente contraddittoria.

Hefesto e il corteo dionisiaco
Fig.: 2) Personaggio mitico per eccellenza Hefesto rivela con le sue forme fisiche imperfette (è deforme e ha i piedi rovesciati) nel suo aspetto la caoticità del tempo mitico delle origini. Le sue molteplici disavventure coniugali completano sul piano esistenziale una vita tutta "sbagliata" dal punto di vista umano. (Illustrazione tratta dal c. d. "Vaso François", della prima metà del VI sec., riprodotta da: Furtwangler-Reichhold, "Griechische Vasemmalerei".

Naturalmente tutto questo non significa rinunciare ad operare confronti tra la cultura romana e quella greca o con qualsiasi altra cultura. Operare confronti, comparare fatti di culture diverse è non solo inevitabile ma anche il primo passo per uno studio che si pretenda scientifico, allo stesso modo che è inevitabile operare traduzioni da una lingua all'altra quando si confrontano culture diverse. Ma la comparazione (e la traduzione) non vanno operate al fine di recuperare ciò che, ad esempio, i romani e i greci avevano di comune, bensì per individuare le differenze specifiche. Non è importante sapere che i greci avevano riti più o meno simili ai romani, essendo una qualche differenza e una qualche similitudine in fondo una cosa scontata, né è importante scoprire che certi rituali come i Saturnali avevano caratteri orgiastici e affermare pertanto che l'orgia è una variante, un tipo, di rito, quasi che lo scopo della ricerca sia di creare delle tipologie. Quello che è importante è comprendere la specificità greca rispetto a quella romana e a quella di qualsiasi altra cultura. La categoria rito, usata per comprendere fatti delle due culture (e di molte altre) è inutile proprio perché appiattisce là dove cerchiamo le differenziazioni.

Nuovamente, questo non significa rinunciare ai termini mito e rito per interpretare i fatti culturali, significa solo rinunciare alla pretesa che i concetti mito e rito classifichino settori particolari delle realtà culturali, distinti da altri settori. I due termini conservano infatti la loro validità se usati come criteri interpretativi. La distinzione tra categorie e criteri interpretativi non è una sottigliezza insignificante o una questione oziosa: essa prevede la rinuncia ad indagare se una cultura ha o meno racconti paragonabili ai miti greci o comportamenti stereotipati paragonabili al ritualismo romano, per cercare invece quali tratti culturali, indipendentemente dal loro nome e quindi da ogni somiglianza formale con elementi culturali greci e romani, svolgono la funzione di fondare l'immutabile o di controllare il mutabile.

La logica del mito

A differenza della funzione rituale, che può essere svolta da gesti, parole e perfino incarnarsi in una persona, il monarca, la funzione mitica viene svolta esclusivamente dal linguaggio. Le azioni mitiche sono sempre dette, espresse mediante il linguaggio e i codici linguistici. Naturalmente il linguaggio costituito a fondare l'immutabile utilizzerà codici particolari distinti dai normali codici di significati propri del parlare comune. Poiché le azioni mitiche, per definizione irripetibili e capaci di esiti assoluti, immutabili, non hanno le stesse qualità delle azioni quotidiane, per dirle, per narrare gli eventi mitici occorrerà utilizzare le parole e il discorso in senso diverso da quando sono usati per raccontare le normali azioni di tutti i giorni. Il carattere fondante del mito impone il ricorso a codici tutti suoi che hanno certo un rapporto con quelli usuali della quotidianità, altrimenti si frantumerebbe l'unità della cultura, ma che certo debbono essere significativi a livelli altri rispetto a ciò che è usuale.

Dissolto il mito come categoria rimane che il linguaggio, per poter svolgere la funzione mitica deve rispondere ad una logica particolare. E' stato lo strutturalismo antropologico ad indicare la strada per comprendere la logica soggiacente i miti.

Il mito è un linguaggio verbale costituito mediante il materiale linguistico che una certa lingua fornisce. L'originalità del racconto mitico rispetto a tutti gli altri fattori linguistici risiede nel fatto che esso utilizza i significati ordinari della lingua in modo del tutto strumentale per costituire significati specifici, quelli mitici, che rispondono ad un codice logico diverso rispetto a quello della lingua ordinaria. Il senso del racconto mitico non coincide con il senso narrativo o con il senso senso linguistico; neanche il senso consiste negli elementi isolati del racconto, bensì nella maniera nella quale tali elementi sono combinati. Il mito veicola valori semantici nuovi, basati su una logica particolare, servendosi dei valori semantici ordinari della lingua. La costruzione avviene combinando questi valori semantici ordinari in un insieme di relazioni che vanno a costituire una struttura dotata di senso proprio. Al di là della apparente irrazionalità del racconto si rivela una forma logica indipendente da quella della lingua. Dei vari significati di un termine, le sue classi semantiche, il mito ne sceglie alcuni o uno solamente; il significato di tale termine nel mito può essere colto solo mediante le relazioni di opposizione o di equivalenza che esso ha con altri termini. In questo modo più che i termini in se stessi sono le relazioni ad essere significative, e gli schemi logici che queste relazioni organizzano.

Il linguaggio verbale ordinario organizza mediante codici di primo grado i segni linguistici elementari, i fonemi, per realizzare la lingua. Il mito utilizza la lingua come materiale per organizzarla mediante codici di secondo grado. Questi codici di secondo grado, come del resto anche quelli linguistici di primo grado, sono messi in opera senza che i soggetti parlanti, quelli che riproducono e trasmettono il racconto, ne siano coscienti. In questo senso è stato possibile dire che i miti più che essere pensati dagli uomini si pensano negli uomini. Anzi, l'organizzazione specifica di ciascun mito ubbidisce a sua volta a codici comuni a diversi miti e in definitiva a un codice fondamentale di terzo grado soggiacente a qualunque racconto mitico all'interno di una cultura.

Nel caso della lingua non vi è alcuna ragione per cui un certo significato sia espresso mediante un certo segno significante; nel mito sono invece utilizzate unità già dotate di senso: questo significa che il mito presuppone già una lingua ed una certa organizzazione della realtà mediante essa. La lingua non è infatti un semplice calco della realtà, mero strumento per esprimere significati pre-esistenti. Essa è il luogo originario di costruzione dei significati. E' la lingua che opera la differenziazione, l'articolazione e la differenziazione del reale: essa culturalizza la natura. La natura diviene cultura non in virtù di corrispondenze tra elementi naturali ed elementi culturali, ma attraverso l'integrazione di elementi naturali nel tipo d'ordine che caratterizza la cultura.

La destorificazione mitica e rituale

Le funzioni mitica e rituale hanno in comune il fatto che entrambe danno luogo ad un "passaggio". Il mito mediante un passaggio dal precosmico, caotico e preistituzionale, al cosmico, ordinato e istituzionale. Il rito dando origine ad una situazione nuova o rinnovata rispetto alla mutevole realtà precedente. Alla base sia del mito che del rito vi è una "crisi" che determina lo svolgimento della vicenda mitica o che richiede l'intervento dell'azione rituale. Il mito rimedia a questa crisi originando, fra le infinite possibilità, quella soluzione che costituisce la realtà attuale, fonda cioè l'attualità come realtà dotata di valore. Il rito invece trasformando una realtà, per vari motivi ritenuta inaccettabile o carente, indirizzandola secondo il fine specifico del rito. Ad esempio: la divinazione, che effettua a ricognizione delle cause di una crisi, è uno strumento finalizzato al recupero e rifondazione di una realtà vivibile, alla realizzazione di una realtà dotata di valore; analogamente l'iniziazione è finalizzata a trasformare un individuo facendolo accedere ad un nuovo status del reale.

La crisi rappresenta una possibilità di scelta tra varie alternative una sola delle quali, dal punto di vista della cultura che le propone, è quella giusta. Per realizzare questo passaggio mito e rito danno origine a distinte forme di destorificazione.

La funzione mitica opera fondando l'immutabile, tutti quegli aspetti che una cultura vuole porre come tali. Il mito, o meglio la funzione mitica, destorifica sottraendo una certa realtà all'agire umano e rendendola, per quella cultura, immutabile. Si potrebbe anche dire che una cultura rende immutabili tutti quegli aspetti del reale che vuole sottrarre all'agire umano proprio tramite la funzione mitica. Proprio perché sottratti all'agire umano questi aspetti del reale sono destorificati: su essi, almeno all'interno di quella cultura, non è più possibile agire. Tutto quello che doveva esser fatto è stato compiuto da agenti mitici, cioè dei soggetti destorificati, ed ora è impossibile agire per mutare le cose. Va da sé che il problema non è prendere atto di realtà naturali eterne, quali ad esempio la morte o alcuni aspetti del mondo fisico, ma di donare un significato umano, diverso da cultura a cultura, alla naturalità: una naturalità che è, in sé, insignificante. Il mero accadere del morire, l'evento naturale della morte, evento che l'uomo condivide con gli animali, è in sé nulla: è la cultura, e ogni cultura a modo proprio, a donare alla morte un significato. Il problema di ogni cultura è quello di sottrarre i vari aspetti del reale alla loro caotica insensatezza naturale donando loro un significato. Si tratta di cosmicizzare, di creare un universo ordinato di significati in modo da garantire la vivibilità. La funzione cosmicizzante del mito è appunto quella di fondare, di donare un senso, a quegli aspetti del reale che si vogliono immutabili. Per realizzare ciò la funzione mitica descrive un "passaggio" da una realtà caotica e disordinata, fluttuante, alla "giusta" realtà stabilita dalla cultura. Sottraendo alcuni aspetti del reale al divenire storico, ponendoli come immutabili, mediante la destorificazione mitica una cultura inizia così la sua definizione del cosmo.

Chiaramente per nessuna cultura è possibile destorificare e rendere immutabili tutti gli aspetti del reale: questa immutabilità renderebbe impossibile l'esistenza. In varia misura ogni cultura riconosce un campo di mutabilità passibile dell'intervento umano. Ogni cultura riconoscerà che vi sono settori del reale mutabili, sui quali è possibile agire per modificarli e renderli significativi dal punto di vista umano. La funzione rituale ha il compito di trasformare questi settori facendoli "passare" dall'indifferenza naturale alla significatività umana. Il suo compito è quello di cosmicizzare donando un significato a tutti quegli ambiti di realtà che non si sono voluti rendere immutabili con il mito. Tutto ciò che è mutabile, soggetto al divenire, deve essere umanizzato, ricondotto alla "ragione" umana. Non sarebbe infatti possibile vivere in un divenire incontrollato e caotico, privo di punti di riferimento, nel quale tutto passa senza regola. Il rito, meglio sarebbe dire la funzione rituale, il divenire irreversibile del tempo è reso ripetibile; la molteplicità assoluta è resa relativa, l’incontrollabile è controllato. Anche qui abbiamo una forma di destorificazione: da una parte, in linea di principio, la formula rituale e l'agire dell'operatore rituale non cambiano mai, sono immutabili, sottratti al divenire storico e pertanto destorificati; dall'altra mediante il rito il divenire è reso ripetibile e soggetto a regole e pertanto destorificato.

Mito e rito realizzano dunque, in modo differente, forme di destorificazione che ordinano il reale. Un giudizio ordinatore impone un mutamento di direzione, un mutamento culturale, ad una naturalità caotica e insignificante, consentendo di guadagnarla al comunicabile e all’intelligibile. Questo si ottiene attribuendo ad un soggetto la capacità di effettuare la scelta: nel mito il soggetto è inattuale; nel rito è attuale, l'operatore rituale. Questa contrapposizione soggetto inattuale/soggetto attuale non fa altro che esprimere l'opposizione soggetto mitico/operatore rituale. Si badi però che sia il soggetto mitico che l'operatore rituale sono in qualche modo entrambi metastorici: il soggetto mitico agisce in un tempo per definizione non storico ma anche l'operatore rituale opera su un piano destorificato e destorificante. La celebrazione di un rito ripete idealmente la stessa celebrazione avvenuta infinite volte e la sua efficacia deriva proprio dal sottrarre un segmento di realtà, quella simbolizzata dal rito, al divenire storico concreto. Non a caso l'oggetto tra i tanti oggetti che i miti fondano e rendono immutabili vi sono spessissimo proprio le formule rituali. Anche se il rito è strettamente legato all'attualità, l'azione destorificatrice del rito agisce su un piano che è opposto a quello della normalità quotidiana. Un conto sono le normali azioni quotidiane, sempre contingenti, un conto è il rito che, pretendendo di essere sempre uguale a se stesso, sottrae alcune azioni (quelle rituali, appunto) al normale divenire storico. Se il soggetto mitico, inattuale, ha la funzione di sottrarre alla storia la propria azione e gli effetti di questa, l'operatore rituale agisce su un piano destorificato: è un soggetto attuale nel senso che è un uomo ma è anche un soggetto destorificato nel senso che la sua azione in qualche modo blocca il divenire, lo incastra in una trama di significati che si pretendono stabili.

Tempo storico, mito e rito

La contrapposizione soggetto mitico inattuale/soggetto rituale attuale non equivale all'opposizione mito/rito, infatti nella nostra cultura, ad esempio, l'opposizione mito/rito non è significativa. Per noi l'opposto del mito è la storia e non il rito. Nella nostra cultura, per la quale il vero è il vero storico, il mito equivale semplicemente al non vero, al falso. Nelle culture nelle quali il mito è attivo e nelle quali esiste un diverso criterio del vero rispetto al nostro vero storico, il mito non è falso ma indica una realtà inattuale. Dal nostro punto di vista tutto ciò che è non storico, e perciò anche il mito, rappresenta il falso ma non rappresenta l'inattuale: la contrapposizione storia/non storia non equivale per noi alla contrapposizione attuale/inattuale. A rigore, anzi, la storia riguarda per noi il passato e dunque ciò che oggi, in senso stretto, non è attualità.

Potremmo dire che la storia rappresenta per noi l'attuale solo in contrapposizione al falso del mito, mentre fuori da questa contrapposizione essa indica il passato. In realtà le cose vanno viste in una prospettiva più ampia: nella nostra cultura la tendenza alla demitizzazione ha avuto come conseguenza la costruzione di una concezione del tempo come tempo unico, totalmente attuale. Nella storia, intesa come tempo unico nel quale si dispiegano le azioni umane e che da queste azioni è totalmente realizzato, tutto è attuale nella misura in cui tutto ci interessa ed appartiene. Soggetti attuali sono tutti gli uomini nello svolgimento delle loro azioni quotidiane. A questi soggetti storici si contrappongono non tanto i soggetti delle storie fantastiche (i miti) quanto quei soggetti che, per le loro incombenze, agiscono in modo destorificato: tutti coloro che possiamo definire in senso lato operatori rituali. Questi pretendono di agire funzionalmente su un livello fuori dal tempo, sempre uguale a se stesso (si pensi ad un giudice che applica una legge che è uguale per tutti gli uomini e, sinché non è mutata, per tutti i tempi; oppure ad un sacerdote che celebra l'Eucarestia ripetendo lo stesso Sacrificio avvenuto duemila anni fa in una terra lontana) mentre l'azione storica è contingente, libera e unica per definizione.

Simboli e coscienza storica

Considerare, come abbiamo fatto, mito e rito come funzioni destorificanti, conduce a porre il problema se sia possibile separare all'interno di una cultura elementi con funzioni destorificanti da altri che non lo sono. Dove finisce il discorso mitico destorificante e inizia quello usuale, tecnico, storico? Cosa distingue il rito dell'Eucarestia, immutabile, dal rito giuridico (immutabile sino a che non muta il codice di procedura) dal rito del thé (che muta con i codici delle buone maniere)?

Il ruolo dei simboli che svolgono funzioni mitico rituali, si è visto, è quello di sottrarre il divenire del tempo al suo scorrere irrelato e, per così dire, di trattenerlo e umanizzarlo: questo sia rendendo il divenire il qualche modo ripetibile, ciclico, sia sottraendo del tutto al divenire stesso alcuni elementi che vengono considerati immutabili. Entrambe le funzioni agiscono nel tempo bloccandolo, realizzando segmenti temporali che, per la loro immutabilità e ripetitività non partecipano più del fluire del divenire ma anzi diventano i punti di riferimento per ogni considerazione del, e ogni azione nel, tempo.

Questa la funzione destorificante dei simboli mitico-rituali: in un certo senso, però, tutti i simboli hanno una funzione simile. Nella misura in cui i simboli hanno la funzione di organizzare in un insieme coerente e significativo la incoerente e insignificante datità della natura, nella misura in cui debbono mettere ordine in un divenire cieco realizzando distinzioni, unità di misura, criteri di operabilità, tutti i simboli, siano essi i codici verbali ed artistici, le tradizioni comportamentali, i sistemi etici e morali, gli stessi apparati tecnologici, tutto ciò in altre parole che ha funzione significativa e dunque simbolica, agiscono nel tempo realizzando delle fratture, delle discontinuità. L'omogeneo divenire è frantumato in unità comparabili, rese significative, trattenute nella memoria e richiamabili per agire nell'esperienza. Il divenire stesso è trasformato in tempo misurabile.

Pantere Menonimi
Fig.: 3) Il complesso universo menonimi, con i suoi molteplici livelli, ha il compito di fondare l’unico, corretto, livello umano, quello terrestre ove le differenze di altitudine e morfologiche del terreno non realizzano pericolose fratture. Come i puma costituiscono e simbolizzano il pericoloso mondo del selvaggio, e i tuoni (uccelli) il mondo uranico, così le pantere, parenti dei puma, vivono e simbolizzano il disumano (mitico) mondo sotterraneo. (Immagine tratta dall'edizione italiana de Il Saggiatore di Claude Lévi-Strauss, "L'origine delle buone maniere a tavola").

All'interno del linguaggio ciascuna parola, ciascun elemento significativo, pretende almeno di essere uguale a se stessa. Sappiamo bene che la linguistica ha dimostrato che ogni parola ha senso solo all'interno di una frase e che ogni contesto è diverso per cui nell'espressione: "alla guerra come alla guerra" il significato del termine guerra non è esattamente lo stesso nei due casi. Nondimeno noi pretendiamo, nell'uso corrente del linguaggio, che i termini usati mantengano invece esattamente lo stesso significato e pretendiamo, ogni volta che pronunciamo la parola "mamma" che il suo significato sia simile, se non uguale, a quello di tutte le altre volte che abbiamo detto "mamma" e che tale significato sia simile per tutti quelli ai quali ci rivolgiamo. Il discorso presuppone una certa stabilità e ripetitività dei simboli: nessun discorso sarebbe possibile se i significati sfuggissero come farfalle. Ogni discorso, pertanto, opera sottraendo i significati al divenire irrelato ed omogeneo realizzando artificialmente (meglio sarebbe dire: culturalmente) delle discontinuità che si pretendono senza tempo. E' chiaro che i linguaggi si trasformano nella storia, come i miti del resto, ma questo non può essere considerato dai soggetti impegnati concretamente a parlare. La stabilità dei significati è una sorta di idea regolativa kantiana. Questo non vale solo per il linguaggio ma anche per i comportamenti pratici che sono anch'essi sottoposti a codici. Piantare un chiodo è un gesto diverso da girare una vite: esso presuppone nella memoria e nella coscienza esistenziale di ciascuno un insieme di esperienze sulle quali confidiamo e che pretendiamo valide per guidarci nell'attualità. Sappiamo che il gesto di piantare un chiodo è simile ai gesti trascorsi e senza rapporto con il gesto di avvitare. Queste distinzioni significative riposano nella nostra memoria, poggiano sulla nostra coscienza e mediante esse operiamo nel tempo rendendo simili tra loro, nella diversità delle occasioni, tutti i gesti nei quali si pianta un chiodo. Queste similitudini e queste distinzioni non sono fatti naturali ma codici culturali di comportamento tecnologico. Analogamente il rito del the riposa su un codice di buone maniere che impone distinzioni nel divenire temporale obbligando a seguire certi gesti in un certo ordine che è quello che costituisce, che realizza, il modo giusto di bere il the. Certo l'obbligatorietà del rito del the è diversa dall'obbligatorietà del rito giuridico ma questo rivela solo che vi sono stratificazioni e diversi livelli all'interno della cultura nella quale queste distinzioni sono rinvenibili: ad esempio la distinzione tra obbligo di educazione e obbligo di legge. Sono diversi livelli di obbligatorietà che non implicano però che uno è più o meno importante dell'altro. Del resto è a volte più facile per noi giustificare un infrazione al codice della strada che a quello delle buone maniere.


Fig.: 4 e 5) Due strumenti divinatori azande. Insieme all’avvelenamento rituale dei polli costituiscono la principale forma mediante la quale gli Azande definiscono il loro reale. La divinazione non è vera perchè indovina l’avvenire bensì perchè solo ciò che la divinazione ha stabilito viene considerato socialmente vero. (Immagini tratte dall'edizione italiana Franco Angeli, di E. Evans-Pritchard, "Stregoneria oracoli e magia tra gli Azande").


Tutti i codici, e in definitiva tutti i simboli, hanno dunque la funzione in qualche modo di controllare il tempo impedendo il suo fluire irrelato. Non sarebbe però coretto dire che tutti hanno funzioni destorificanti. La diversità non è nei simboli ma nella coscienza che abbiamo di essi. Il rito del the, poniamo nell'antica cultura giapponese, ha effettivamente funzioni destorificanti: qui pone ordine, trasforma effettivamente una situazione che non è solo alimentare e realizza un ordine, ad esempio sociale, che prima non esisteva. La sua funzione è quella, ogni volta che si prepara il the, di organizzare nel corretto modo la famiglia, le posizioni sociali, il potere politico dei partecipanti. Nell'antico Giappone il the non si sarebbe effettivamente potuto bere in altro modo. Da noi le cose sono diverse, non perchè è diverso il the ma perchè la nostra coscienza è diversa. L'organizzazione del nostro mondo sociale è da noi demandata ad altri livelli (ad esempio giuridici) e bure bevendo il the secondo le regole sappiamo che potremmo berlo diversamente. E' la coscienza storica propria della cultura occidentale, la coscienza della storicità della condizione umana, che fa la differenza. Tutti i codici simbolici si presentano a noi, alla nostra coscienza storicista, tutti dotati di un carattere irrimediabilmente storico. Noi sappiamo che tutti i tratti culturali sono un prodotto storico, che tutto proviene dall'agire dell'uomo e che tutto è mutabile storicamente. Al punto che abbiamo riti (giuridici) che effettivamente realizzano in modo vincolante l'ordine nelle situazioni di crisi ma che, destorificanti ad un certo livello quando pretendono che la legge è uguale per tutti, non sono però immutabili in senso metafisico visto che è possibilissimo mutare leggi e codici di procedura.

Il grado di consapevolezza storica decide dunque, nelle varie culture, il campo della destorificazione. Ricostruire questo grado di consapevolezza storica è il compito dello storico e non è un caso che la scienza storica è un prodotto della nostra cultura occidentale.

Questo non significa che la coscienza storica sia una condizione naturale scontata, della nostra cultura: è una conquista culturale che continuamente può essere smarrita. Nella nostra cultura il vero è il vero storico e non abbiamo miti a fondare l'immutabile. Tuttavia tentazioni mitiche riemergono continuamente a vari livelli. Un'automobile di lusso è contemporaneamente un simbolo mitico, che giustifica uno status sociale, il livello economico e una certa immagine del possessore, e un oggetto tecnico capace di certe effettive prestazioni. Continuamente si ripropone la tentazione di fondere i due livelli e vedere uniti il carattere mitico e tecnico della vettura. Tenerli distinti, o almeno essere coscienti del carattere storico anche delle valenze simboliche della vettura è il compito della coscienza occidentale se non vuole cadere nelle tentazioni irrazionalistiche. Si è detto che il soggetto concretamente impegnato a parlare pretende, anche nel caso di un esperto di linguistica, che il significato delle sue parole non muti ma rimanga stabile: mantenere questa pretesa, che abbiamo definito una sorta di idea regolativa, e contemporaneamente essere consapevoli della storicità del linguaggio è il problema di chi vuole mantenere una coscienza critica, storica, del reale.

Distingueremo allora, al massimo, una destorificazione "forte", operata tramite le funzioni mitiche e rituali, e una destorificazione "debole", funzionale e relativa, realizzata da tutto l'universo simbolico che costituisce una cultura.
Marco Menicocci
(Tutti i diritti sono riservati all'autore. L'articolo è stato pubblicato per la prima volta sul numero 1 della rivista telematica "Pagine del Tempo". Questo documento e le immagini ad esso collegate vengono rilasciati per puro uso personale in una singola copia. Qualunque utilizzo inerente alla divulgazione e/o alla utilizzazione al di fuori di questo sito dovrà essere concordato con l’Autore preventivamente e per iscritto. In ogni controversia il Foro competente sarà quello competente al domicilio dell'Autore.)