L'origine dell'immortalità


Marco Menicocci


Naturalmente il nostro problema non è se esiste, o meno, un'anima immortale; se l'immortalità sia vera o no. Il nostro problema è come mai è capitato agli uomini di avere un pensiero simile: come sia venuto in mente alla gente che esista qualcosa come l'immortalità. Mi concederete che non è esattamente un pensiero scontato. Eppure il pensiero dell'immortalità si presenta alla nostra coscienza contemporanea proprio come un pensiero spontaneo, quasi inevitabile. Al di là di quello che ciascuno può pensare o sperare a riguardo di una vita immortale, al di là delle posizioni religiose, tutti comprendiamo bene cosa significhi il termine immortalità. E' un pensiero, questo dell'immortalità, che sembra sorgere spontaneo, senza bisogno di spiegazioni o ragionamenti complicati, ad esempio in relazione all'evento tremendo che è la morte. Tutti noi, pertanto, comprendiamo benissimo e chiaramente questo pensiero. E tutti noi, credenti o meno, qualora ci venisse chiesto di spiegare come mai questo pensiero sia presente nella nostra mente risponderemmo, verosimilmente, chiamando in causa spiegazioni di tipo filosofico o psicologico. In qualche modo, cioè, se questo pensiero è presente in tutti, deve essere collegato con la natura dell'animo umano. Insomma sarebbe nella natura dell'animo umano, in qualche modo, esser portati a pensare all'immortalità. Come desiderio, come speranza, come aspirazione, come superamento dei limiti, in qualunque modo lo si voglia intendere, questo pensiero sarebbe però connaturato all'uomo. Un universale, insomma. Se c'è la morte (che è certo un universale) allora ci sarà anche il desiderio (magari illusorio) di andare oltre la morte.

In effetti a lungo è apparso anche a sapienti e studiosi che il pensiero dell'immortalità fosse connaturato all'uomo. Pensiamo a Platone nel Simposio o a Foscolo nei Sepolcri: il desiderio del sapiente di esser ricordato nei secoli. Kant, nella I e II Critica, ad esempio, si preoccupa di giustificare la razionalità del pensiero dell'immortalità ma non accenna a spiegarne l'origine. Feuerbach collega il desiderio di immortalità al meccanismo alienativo: il pensiero dell'immortalità fa parte del costrutto che costituisce l'essenza della religione, un costrutto alienato ma in fondo inevitabile. Anche qui la nozione di immortalità sembra appartenere all'uomo costitutivamente. Taylor e poi Lang e di seguito buona parte della scuola antropologica inglese dell'800 considerarono il pensiero dell'immortalità (o forse dovremmo dire: il sentimento dell'immortalità) come il fondamento di qualsiasi esperienza religiosa. Freud, Jung a la prima psicanalisi,collegarono questo pensiero a proiezioni e aspirazioni dell'io.

Tutti questi intellettuali, questi intellettuali, soprattutto forse quelli che negavano la realtà di una possibile vita oltremondana, hanno utilizzato il pensiero (o il sentimento) dell'immortalità per spiegare altri costrutti (la religione, l'Io...) ma non hanno questionato questo pensiero in quanto tale. Al massimo ciò che è stato raggiunto è stato di far derivare il sentimento (o il pensiero) dell'immortalità da pulsioni, alienazioni, spinte dell'anima o della mente. Quindi, lo ripeto ancora, come qualcosa di connaturato all'uomo. Come se l'uomo, appena venuto al mondo, dovesse prima o poi inevitabilmente affrontare un simile pensiero.

Ora, per una q1ualsiasi questione, accontentarsi come risposta del fatto che le cose stanno così per natura, significa accontentarsi davvero di poco. Dire che una cosa è così, in un certo modo, perché per natura è così, equivale a dire che una cosa è così perché è così. Proviamo allora a smantellare questo costrutto che conduce alla “naturalizzazione” dell'immortalità, che spinge a considerare il pensiero dell'immortalità come qualcosa di connaturato all'uomo; quel costrutto che riduce il pensiero dell'immortalità a pulsioni naturali della psiche o della mente o comunque della natura umana. Questo costrutto è costituito da tre nuclei differenti.

Il primo è costituito da una pulsione alla sopravvivenza, quello che potremmo definire “istinto di sopravvivenza”. Il termine istinto è improprio ma per capirci e per semplicità possiamo utilizzarlo. Questo istinto riposa su una tendenza biologica alla preservazione della specie e come tale ha una diffusione amplissima. Tuttavia non universale: pensiamo ai Lemmings che si suicidano nelle acque per ridurre il numero. Prescindendo da questo va rilevato che gli psicologi hanno presentato forti dubbi sulle tesi, ad esempio freudiane, della presenza di istinti universali nell'uomo. Quel che possiamo dire è che nell'uomo, come negli animali, esiste una pulsione pre-conscia alla sopravvivenza che, però, può essere, chiaramente, superata. Comunque non parliamo di immortalità ma di pulsione a evitare il dolore e, forse, la morte.

Il secondo nucleo poggia sul timore, consapevole stavolta, della morte: la morte mette paura. Questo è però un codice culturale e non un dato permanente. E' il risultato di significati appresi e non di pulsioni naturali. Tanto è vero che la morte può esser desiderata. Molti popoli (gli Eskimesi, gli Indiani delle Pianure) temono più la vecchiaia che la morte ed anzi desiderano la morte giunti ad una certa età. Non dobbiamo proiettare presso altre culture quelle che sono le nostre motivazioni. Anche qui, pertanto, abbiamo a che fare con un codice del tutto storico e non pan-umano. Anche qui, soprattutto, il tema è la morte e non l'immortalità.

Il terzo nucleo si riferisce al desiderio di immortalità considerato come una proiezione universale. Senonché le prove dell'esistenza di una simile proiezione sono del tutto frammentarie e non sempre positive, anzi. Odisseo che incontra Achille negli Inferi ottiene da questi un rimpianto per la vita e non un desiderio di immortalità ultraterrena: è vivere il valore e non l'eternità, che è caduca. I Re semiti, fenici, vivono in un mondo del tutto caduco, povero: certo, come Achille, la loro non è una dimensione invidiabile. Se queste narrazioni dicono qualcosa, ci dicono che la vita dopo la morte, ammesso che esista, non è granché. Questa proiezione negativa prova qualcosa? Dove è il desiderio di immortalità? Non sarà da chiederci, semmai, se questa proiezione anziché essere la causa del pensiero dell'immortalità non sia essa stessa un risultato? Ad esempio, noi potremmo aver avuto, per motivi che ancora non sono chiari, la nozione di immortalità e poi essercela spiegata con le pulsioni universali.

Messa così la spiegazione scontata del nostro problema, una spiegazione che voleva dimostrare come il pensiero dell'immortalità appartenga al genere unano universalmente, si rivela una spiegazione che non spiega molto.

A volte, come testimonianza della diffusione universale del pensiero dell'immortalità è portata una ulteriore prova e con questa prova dobbiamo fare i conti. Praticamente tutti i popoli conosciuti hanno un rapporto di evitazione con il cadavere. Il cadavere, anche quello di una persona cara, è in qualche modo pericoloso. Ora, se è pericoloso dopo la morte vuol dire che, in qualche modo, il cadavere può agire sui vivi e, dunque, deve poter avere un qualche grado di vita. Diffusissimo, del resto, è il tema del “ritorno dei morti”, un ritorno quanto mai pericoloso per i vivi. Questa prova, pertanto, poggia sul timore dei morti: se i morti possono tornare e agire sui vivi allora debbono “esserci”. Deve esserci una sorta di immortalità, altrimenti come farebbero i morti ad agire e a tornare?

Astrattamente il ragionamento non sembra fare una piega. Ma non è così. Quello che occorre fare con i defunti è trasformarli a morti “cattivi” in morti “buoni”, in “antenati”. Il problema non è “dove” vada il morto bensì che questo morto si trasformi in aiutante benevolo. Insomma il problema è il pericolo, un pericolo che riguarda il qui e l'ora, e non è l'immortalità. Questo pericolo può assumere (ma non sempre assume) il carattere dei morti. Quando accade il morto è utilizzato come segno per significare un pericolo. Potrebbero (e sono) essere utilizzati molti altri segni. Nel caso del ritorno dei morti, i morti che tornano sono la folla anonima, irriconoscibile, pericolosa perché priva di relazioni con i vivi. Non sono gli immortali che tornano ma gli anonimi. Con questi occorre ristabilire una relazione positiva ma non per far del bene ai morti bensì per superare una crisi di cui i morti sono solo il simbolo.

Rimane però che statisticamente il pericolo è sovente identificato con i morti. Perché proprio loro? La risposta dovremmo darla caso per caso, popolo per popolo. Certo, però, il fatto traumatico dell'esperienza della morte può aiutarci. Prima c'era una persona ed ora c'è il vuoto. C'era un vivo attivo ed ora c'è un cadavere inattivo. C'era una relazione e un rapporto ed ora c'è una situazione che sfugge ad ogni rapporto. Bisogna ricostruire il tessuto del viver quotidiano. Ma c'è il morto, in qualche modo ingombrante per il vuoto che ha lasciato. La morte è “eccessiva”. Come ci si relaziona con il morto? Occorre trattarlo in qualche modo e, quindi, trasformarlo in qualche modo in un entità con cui sia possibile relazionarsi. Lo ripeto: non perché ci si vuole relazionare con il morto ma perché si vuole ricostruire un tessuto quotidiano. Così si tratta il cadavere con i riti funebri. In questo modo il cadavere cessa di essere un eccesso o un vuoto e tramite i riti si giunge ad una nuova situazione. Il cadavere è diventato un segno, un simbolo, per poter tornare alla vita quotidiana. Era, nel suo eccesso, il segno di una crisi ed è ora il segno di una cara memoria. Questo significa che possono esserci dei rapporti con i morti senza che per questo i morti siano immortali, senza che esista una vita dopo la morte. Diciamo allora che per superare una crisi individuale o famigliare debbo dar senso al cadavere e trasformarlo in antenato caro. In taluni casi vi sono delle crisi collettive, che riguardano l'intera società, e allora per superarle si possono utilizzare gli stessi simboli utilizzati per dare senso alle crisi individuali e famigliari.

Del resto i morti, anche quando vivono una esistenza oltremondana, non sono sempre immortali: c'è chi uccide i morti.


Va bene: abbiamo visto che non possiamo considerare il pensiero dell'immortalità un dato pan-umano. Resta però ancora da capire come mai questo pensiero circoli tra noi. Scartate le risposte filosofiche o psicologiche proviamo con una risposta storica: possiamo provare a trattare la nozione di immortalità come un prodotto storico e quindi tentare di ricostruirne la genesi. Questo significa che deve esserci stata un'epoca, nella nostra storia, in cui nessuno pensava all'immortalità e devono esserci state epoche successive ove, in certi luoghi qualcuno cominciava a pensarci e altri luoghi ove invece si continuava a viver tranquillamente come prima. Insomma, se è un prodotto storico anche l'immortalità come tutti i prodotti storici, deve avere una sua origine. Per scoprirlo abbiamo una sola via: seguire i documenti storici. Per fortuna in questo caso i documenti non mancano, cosicché non dobbiamo accontentarci di fare ipotesi e nemmeno dobbiamo inventarci nulla. Abbiamo anzi un periodo e un luogo relativamente precisi: tutto è cominciato in Egitto intorno al 3500 a. C.

Come dicevamo, se l'immortalità è stata inventata, e sappiamo che è accaduto in Egitto circa 5500 anni fa, più o meno, deve esserci stata una situazione precedente in cui l'immortalità non c'era e a partire dalla quale questa nozione, per motivi che dobbiamo ancora chiarire, si è formata. Anche in questo caso abbiamo i documenti e possiamo stabilire un dove e un quando: in Mesopotamia tra il 3800 e il 3600 a. C.

E' qui che, nel periodo considerato, gli uomini hanno dato vita alle prime città. E' il modello c.d. della Città templare, una città caratterizzata da un tempio che la identificava, da uno spazio proprio, da un cosmo in linea di principio perfettamente definito e immutabile. Qui, in Mesopotamia, al fine di stabilire l'identità, i confini, il cosmo di una città, si è fatto ricorso (si è immaginato per la prima volta) a una dimensione fissa del reale. Tutto cambiava, le stagioni e le generazioni si susseguivano ma la città (e naturalmente non mi riferisco alle case) doveva esser considerata immutabile. Per renderla immutabile si è collegato la città con un dio. Naturalmente per far questo si è dovuto prima inventare un dio e concepirlo come immortale e non a caso proprio in Mesopotamia sono stati concepiti i primi dei e li si è pensati come immortali. Il modello sono state le stelle, che dal punto di vista umano appaiono immutabili. Gli dei-stelle di notte erano nella loro casa celeste e di giorno scendevano nel tempio a prendersi cura della città. Non a caso il dighir, il segno della stella, era usato nella prima scrittura tanto per indicare le stelle astri quanto gli dei.

Per garantire le città, pertanto, gli uomini di quella terra e di quell'epoca, e solo loro, hanno voluto gli dei immortali. Gli dei e non gli uomini. Le cose sono andate bene sino a quando il modello della città templare non ha cominciato ad andare stretto e l'autorità non è passata, tramite una vera rivoluzione, dai sacerdoti del tempio ai re. Una rivoluzione secolare, naturalmente, che ha avuto modi e tempi diversi e che noi riassumiamo per comodità. Abbiamo dunque i primi re. Ma come si diventa re? In Mesopotamia si diventa re, originariamente, sposando la dea. E' la dea che, unendosi ad un uomo, lo rende re. In pratica la persona che aveva il potere lo legittimava unendosi alla sacerdotessa della dea. Questo modello ha retto abbastanza: anch'esso poggiava sull'immortalità della dea. Gli uomini, tutti, re compreso, dopo la morte sparivano. Alcune versioni del poema di Gilgamesh esprimono drammaticamente questa consapevolezza: l'eroe, che è proprio alla ricerca dell'immortalità e della regalità, accusa la dea Ishtar di non salvare mai nessuno dei suoi sposi. Anche i re diventano solo polvere. Solo gli dei sono immortali.

Il modello mesopotamico si è poi spostato in Egitto. Qui la regalità ha assunto ben presto un carattere assai più marcato: il faraone non è il re di una città ma è, letteralmente, l'Egitto. Lui e l'Egitto sono sinonimi e poiché l'Egitto non può finire né svanire nel tempo, non può cambiare neanche quando è invaso da stranieri, allora il simbolo dell'Egitto non può cambiare neanche lui. Gli egiziani sapevano che l'unica cosa che non cambiava mai erano gli dei sono immortali, dunque per essere immutabile, il faraone non poteva che essere anche lui un dio. Ma se il faraone è un dio allora è anche immortale. Abbiamo un grosso spostamento rispetto al modello mesopotamico, spostamento che comporta un nuovo modello di dio e un nuovo modello di re. Come si diventa re in Egitto? Lo si diventa ereditando il titolo dal padre-faraone. E' la catena dinastica che lega padre e figlio nella successione (non più la dea al re mediante il matrimonio). E' il re-dio-padre morto che dona al re-dio-figlio vivo il trono. Il tutto è espresso nel culto di Osiride che, ucciso, rinasce in Horus. Il faraone morto è Osiride e il figlio è Horus. Si badi: non è come Osiride bensì è proprio Osiride. E poiché il dio Osiride è immortale, così è immortale il padre del faraone. Il culto offerto al faraone morto è il culto offerto all'antenato del faraone vivo; diciamo che per avere un faraone vivo occorre che ce ne sia uno morto. Per rendergli culto occorre un luogo di culto: la piramide o comunque la sua tomba. La tomba del padre diviene il centro ideale del potere del figlio. Nella città templare il centro era il tempio: costituiva il punto nodale della città; il luogo di raccolta, conservazione e distribuzione dei beni; il centro simbolico della città e il centro amministrativo. In Egitto il centro è la tomba del faraone morto e tutti iriti connessi con il funerale del faraone hanno lo scopo di sottolinearne l'immortalità, la sua esistenza per (nel senso di “pro”) l'Egitto e per il faraone vivo. Noi ci domanderemmo: ma se il padre del faraone è Osiride, il nonno del faraone cosa diventa? Una domanda chiaramente oziosa per gli egiziani, che infatti non se la sono mai posta. A loro non serviva divinizzare (e rendere immortale) il nonno: serviva solo di rendere immortale il padre, e questo non per una qualche questione di carattere metafisico bensì al fine di rendere stabile la catena dinastica padre-figlio. Solo loro contano, e infatti solo loro, e nessun altro, è immortale. Conta la generazione che, chiaramente, è una generazione divina.

I cambi di dinastia comportarono aggiustamenti ma sostanzialmente il meccanismo tenne. Possiamo dunque rispondere alla domanda di come sia nata l'immortalità: è nata per rendere il faraone (e il padre) un uomo diverso.

Se la nozione di immortalità, precedentemente inesistente, nacque insieme all'istituto del faraone, la sua diffusione fu dovuta all'estensione dei diritti di ereditarietà ad altre cariche ed istituti. In occasione di indebolimenti del potere centrale le elites del regno ottennero che venisse anche a loro offerto il privilegio di poter ereditare cariche e titoli. In altre parole sorsero in Egitto delle aristocrazie che giustificarono il loro diritto allo stesso modo del faraone: offrendo un culto al padre morto. Naturalmente sacerdoti e dignitari non potevano aspirare alla divinità (almeno: non potevano aspirarci troppo: non è escluso che sia accaduto) che era prerogativa del faraone, ma potevano aspirare all'ereditarietà della carica, trasformando il padre-morto in un immortale. Per questa via l'immortalità si diffuse via via tra un sempre maggior numero di cariche e di dignitari e con essa il culto tombale dell'antenato.

Dal punto di vista logico il riconoscimento della genealogia poteva esser del tutto indipendente dalla prospettiva oltremondana. Il modello dinastico egiziano si diffuse in tutto il Mediterraneo (e in Africa) indipendentemente dalla prospettiva dell'immortalità. Occorre precisare però che si diffuse come problema e non come soluzione: costituì quasi ovunque una soluzione con cui confrontarsi per scartarla. Quindi è anche possibile che il rifiuto dell'immortalità, che caratterizza tutte le religioni arcaiche del Mediterraneo, sia collegato al rifiuto della monarchia. Nello stesso tempo, comunque, la prospettiva dell'immortalità, in parte svincolata dal tema regale, in virtù di un ampliamento che potremmo definire “democratico”, si diffuse anch'essa come risposta, ora, ad altri problemi. Una diffusione assai lenta: ancora sino al 2 sec. a. C., in Israele, cioè sino ai libri dei Maccabei, manca nell'Antico Testamento cenni all'immortalità extratombale. Analogamente non ve ne sono, ad esempio, in Grecia o a Roma. Sarà il cristianesimo a riprendere il tema con forza, utilizzandolo in una prospettiva universalizzante.

Non seguiremo il proseguo di questa storia: ci eravamo posti solo di ricostruirne la genesi.

IL sentimento, il pensiero, la nozione di immortalità, non sono dunque dei dati scontati, pan-umani ma sono il risultato di un processo storico senza il quale a nessuno verrebbe in mente, oggi, di poter immaginare anche solo come ipotesi che la morte possa esser altro della fine di tutto.